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SAN GIOVANNI BATTISTA E L'AMBIGUITÀ DI LEONARDO

Ambiguità e mistero senza dubbio caratterizzano la produzione di Leonardo da Vinci, che forse potremmo considerare uno degli artisti più enigmatici di sempre. Attorno ai suoi quadri ruotano le teorie più disparate. Sembra quasi che Leonardo si diverta a confondere lo spettatore con simboli nascosti, gesti equivoci, volti enigmatici. Ma proprio nel mistero sta il bello: la sua arte si presta a infinite interpretazioni, che mai riceveranno risposte. Piuttosto, saranno alimentate da nuove domande.


Sensuale, tentatore e quasi profano, il San Giovanni Battista (1513 ca.), considerato uno dei suoi ultimi dipinti, è totalmente avvolto dall’ambiguità. Da uno sfondo scuro che ne esalta la figura, emerge San Giovanni come una sorta di fonte luminosa svincolata dal contesto. Egli indossa la veste tipica degli eremiti, retta dal braccio sinistro e con il braccio e la spalla destra scoperti, che rivelano proporzioni perfette. È nel pieno della giovinezza e presenta tratti spiccatamente androgini: i capelli, stando agli scritti dello stesso artista, sono dipinti seguendo gli studi sul moto dell’acqua. Col San Giovanni Leonardo porta agli estremi le ricerche sullo sfumato: i contorni si perdono nell’ombra, i colori si assottigliano fino ad abbracciare una tendenza monocromatica. Oltre il puro aspetto formale, però, c’è molto altro: il soggetto ci guarda e ci confonde, con un gesto ambiguo e un sorriso a metà tra seduzione e perdizione.


Sappiamo per certo che Leonardo non si volle staccare mai da questa tela, tanto da portarla con sé nella sua trasferta francese ad Amboise (assieme alla Gioconda). Possiamo quindi supporre che queste due opere avessero per lui un significato particolare. Freud, nelle sue teorie sulla Gioconda, ipotizza che questo attaccamento alla tela sia di matrice autobiografica: Leonardo, in una sorta di immagine mnemonica infantile, avrebbe idealizzato sua madre e concentrato il suo affetto nel tanto famoso sorriso enigmatico. La stessa strada autobiografica potremmo seguirla anche per addentrarci tra i misteri di questo quadro. Il soggetto rappresentato si rifarebbe dunque al volto di Gian Giacomo Caprotti (in dialetto Salaì, diavolo), che per Leonardo posò molte volte. Egli rimase alla sua bottega per diversi anni, e infatti l’artista lo cita in più occasioni: il Salaì doveva avere una grande importanza nella vita di Leonardo. Il suo volto appare continuamente in dipinti e disegni, tra cui l’Angelo incarnato, versione erotica dell’Angelo perduto (abbiamo solo la copia di un anonimo, conservato al Louvre).

Sempre Freud, ricostruendo, secondo il metodo psicanalitico, la personalità di Leonardo, teorizza una omosessualità latente. Tale teoria ha sempre affascinato gli studiosi, che sono andati addirittura oltre: Clark Kenneth e Michael White sono convinti che il genio di Vinci non rinunciò mai alla sua vita omosessuale. Se nel San Giovanni Leonardo avesse intenzione di fare espliciti riferimenti sessuali, noi non possiamo saperlo. Ma importante è ricordare che il tema dell’androgino era tipico del neoplatonismo fiorentino del tempo, e simboleggiava l’ideale di perfezione umana in un corpo che fondesse sia elementi maschili che femminili (Maurizio Calvesi vede questa intenzione anche nella Gioconda).

Dunque, il San Giovanni include l’Angelo e include Salaì (soprannominato proprio diavolo da Leonardo per il suo carattere irrequieto). A questo punto è possibile ipotizzare echi personali e sentimentali nella tela “ufficiale”, ed è facile comprendere perché Leonardo non volle mai separarsene. All’arte e alla sua funzione eternatrice ha in qualche modo affidato il compito di ricordargli l'ebbrezza delle passioni giovanili, contro l’incombere della vecchiaia.

Tra le anomalie, infine, vi è la mano che impugna la croce. Con un gesto del tutto innaturale, essa si percepisce indecisa tra il toccare il petto e il tenere la croce. Molti studiosi concludono che in origine la croce non ci fosse, come testimoniato da un disegno preparatorio attribuito a Leonardo e una delle tante imitazione coeve del San Giovanni, che cambia solo per il diverso sfondo.



Silvano Vinceti vede invece la croce come parte integrante del dipinto, opera di un Leonardo critico. Rappresentando San Giovanni in una dimensione terrena e materiale, avrebbe puntato il dito contro la chiesa del suo tempo, colma di corruzione e di papi interessati solo al potere temporale. L’ambiguità sarebbe stata dunque l’unica via per una critica concreta: diversamente, l’Inquisizione l’avrebbe schiacciato.


Interessante è poi l’ipotesi di Saro Brancato: egli immagina che la croce postuma sia il ravvedimento dell’artista che, per quanto possibile, riequilibra in senso trascendente il San Giovanni e ne stempera la conturbante vitalità. La croce, quindi, è il segno manifesto della crisi di coscienza dell’artista e diventa la sua metafora penitenziale. L’intervento pittorico rappresenta la testimonianza morale di un uomo che, inseguito dai dubbi e dai sensi di colpa per aver vissuto difformemente dai princìpi cristiani, percependo la vicinanza della fine, abbia voluto riconciliarsi con Dio.

Se così fosse, il dipinto rifletterebbe la narrazione di un segmento importante dell’esperienza personale dell’autore, conclusa con l’affermazione del proprio testamento spirituale.


Il personale e il trascendente, dunque, si fondono in una danza vorticosa che sembra ricordare i capelli del San Giovanni. Quasi fosse un soggetto a metà tra cristianesimo e paganesimo, esso genera una sensazione universale di mistero, e conduce in una dimensione ricca di suggestioni. Ed è proprio in questa dimensione, ambigua e indefinita, che si colloca il genio di Leonardo.



Bibliografia:

Silvano Vinceti, Il segreto della Gioconda, Armando editore (2011)


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