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Le rose di Eliogabalo

di Federica Scolti

" Eliogabalo sommerse i suoi ospiti, sdraiati sul triclinio mobile, con viole e altri fiori, così che alcuni, non riuscendo a liberarsi, morirono soffocati. "

Questa testimonianza, contenuta nella Historia Augusta (raccolta di un autore sconosciuto del VI sec. d. C. delle biografie di imperatori e usurpatori romani da Adriano a Numeriano), nell’Ottocento (periodo segnato, nel panorama intellettuale, da un profondo interesse e una malinconica idealizzazione di tempi ormai remoti) ha stregato l’artista britannico di origine olandese Lawrence Alma-Tadema (1836-1912).


Questi, elogiato in vita per la sua strabiliante abilità tecnica nella resa realistica di panneggi e materiali di costruzione (fra tutti il marmo), lo fu in minor misura per i temi delle sue opere. Da grande appassionato dell’antichità greco-romana e del primo Medioevo tenta di ricostruire con minuzia le ambientazioni, dilettandosi nella rappresentazione di oggetti quotidiani e riferimenti tratti dai suoi studi (fondamentale e di grande ispirazione fu per la sua carriera la visita alle rovine di Pompei). Tuttavia, lungi dall’essere di valore solenne e moralizzante, i suoi soggetti, impegnati in azioni frivole e piaceri profani, placidamente abbandonati all’opulenza e alla lussuria, sono tratti dalla vita di ogni giorno. Ci troviamo, d’altronde, nel rigore dell’epoca vittoriana e una rappresentazione del vizio che non si esprima contro di esso non può che esser vista con sospetto.



Le rose di Eliogabalo è un dipinto del 1888.

La tela ad olio è di dimensioni 213,4 cm per 131,8 cm, fu esposta per la prima volta alla Royal Academy di Londra e commissionata dal primo baronetto Sir John Aird.

Le figure visibili sono in tutto sedici; le otto in primo piano, sdraiate sui lettini del triclinio e quindi intente a consumare le prelibatezze di un banchetto, hanno vesti raffinate, indossano gioielli curati e corone di fiori e foglie sulla testa. Una grossa mole di petali di rosa bianchi, rossi e rosa si adagia su di loro con un movimento lento e arioso: viene dal telo bianco in alto alla sinistra dell’osservatore, il falso soffitto della stanza su cui erano posti. La sorpresa negli invitati è attutita dal senso di torpore riconducibile all’ebbrezza dei sensi: ciò emerge soprattutto nella figura femminile nell’angolo in basso a sinistra, immobile fra i petali che quasi ne coprono il volto. In secondo piano sei invitati accompagnati dall’imperatore in persona (l’ultimo a sinistra, con un mantello dorato) osservano divertiti e rilassati l’avvenimento. Accanto a una colonna, nei colori della prospettiva aerea, una musicista intrattiene i commensali suonando il flauto a due canne. Più a destra si distingue una statua di Dioniso molto simile a quella del Dioniso Ludovisi custodita al Museo Nazionale Romano di Roma, che è una copia romana in marmo del 160-180 d.C. da originale greco del IV secolo a.C. di autore sconosciuto e rappresenta il dio con la mano destra appoggiata sul capo e la sinistra che stringe un grappolo d’uva, accompagnato da una pantera e un satiro. In lontananza si vedono cielo terso e montagne.


Dioniso Ludovisi


Le rose di Eliogabalo non è ad oggi custodita in nessun museo perché parte della collezione dell’imprenditore Juan Antonio Pérez Simón.


Ma chi era l’imperatore romano Eliogabalo, del quale si conosce così poco?


Ritratto di Eliogabalo, 221 d.C circa, Musei Capitolini (Roma)


È il penultimo imperatore della dinastia dei Severi, successiva a quella degli Antonini.

Il periodo severo, nella storia dell’Impero Romano, va dal 193 al 235 d.C. e vede succedersi al trono Settimio Severo, il figlio Caracalla, Eliogabalo e Alessandro Severo. Fu un'epoca di crisi economica e del mos maiorum, contraddistinta dalle tendenze autoritarie degli imperatori, dall’imprescindibilità dell’approvazione dell’esercito, che necessitava di ingenti spese ai danni dei cittadini pesantemente tassati, e dalla crescente importanza delle province: caratteristiche ben fissate nel ritratto del primo esponente della famiglia, un generale proveniente dalla provincia d’Africa.

L’impero cominciava a mostrare segnali di debolezza, minacciato dalle incursioni su più fronti; si assistette dunque alla svalutazione della moneta, all’inclusione di barbari nelle legioni e all’estensione della cittadinanza agli abitanti delle province (editto di Caracalla, 212) al fine di finanziare il comparto bellico. L’ecumenicità di Roma si riflesse nella diffusione di nuovi culti religiosi come quello della dea egizia Iside, quello persiano del dio Mitra e quello del dio Sole, presente in disparate culture.


Eliogabalo, nato Sesto Vario Avito Bassiano, era figlio di Giulia Soemia, cognata di Settimio Severo, e Sesto Vario Marcello, senatore e uomo fidato di Caracalla.

Siriano di origine, trascorse la giovinezza a Roma e ottenne il titolo di sacerdote del dio solare El-Gabal per ereditarietà familiare: da qui il nome con cui è conosciuto (in realtà un’invenzione postera).


Come divenne imperatore?

Dopo la morte per assassinio di Caracalla salì al potere il suo prefetto del pretorio, Marco Opellio Macrino. Egli esiliò la famiglia imperiale in Siria, ma non tenne conto dell’acume di Giulia Mesa e Giulia Soemia, rispettivamente nonna e madre del futuro imperatore. Le due donne ordirono una congiura ai danni di Macrino diffondendo la notizia che Eliogabalo fosse figlio di Caracalla e suo erede naturale e promettendo una grossa ricompensa ai soldati che gli avessero restituito il trono. Ad Antiochia, quando Macrino e l’esercito fedele alla vecchia famiglia imperiale si scontrarono, il primo riportò una grave sconfitta e fuggì in Bitinia, dove venne catturato e infine giustiziato.


L’appena adolescente Eliogabalo (la sua età è stimata intorno ai 14 anni) divenne allora imperatore sotto il nome di Marco Aurelio Antonino Augusto, lo stesso del presunto padre Caracalla. Il suo governo durò dal 218 al 222 d.C. e fu contraddistinto da una condotta in conflitto con i costumi di Roma, accompagnata da forte disinteresse nei confronti della politica e della legiferazione.

Lo si ricorda come dispotico e crudele verso chiunque osasse offrirgli consiglio. Destò polemiche il suo arrivo a Roma, dopo aver passato l’inverno del 218 in Oriente, in corteo vestito come una divinità e preceduto da donne e ragazzini disinibiti seguaci di El-Gabal.

Per onorare questo dio ordinò la costruzione di un grandioso tempio sul Palatino nel quale custodire l’oggetto più prezioso del culto, un betilo (pietra ritenuta magica) di forma conica. Molto religioso, tentò di assimilare El-Gabal al Sol Invictus e di inserirlo nel pantheon romano, addirittura al di sopra di Giove, portando nel tempio (l’Elagabalium) svariate reliquie del paganesimo latino in modo tale che i fedeli fossero obbligati a riconoscerlo come oggetto di venerazione. Per affermare con più forza questo suo volere sposò, dopo aver ripudiato la sua precedente moglie, la vestale Giulia Aquilia Severa: un vero sacrilegio, dal momento che le vestali erano tenute a restare vergini, pena il seppellimento da vive. Dalle fonti che possediamo ci perviene che ebbe in tutto cinque mogli e due mariti, fra i quali lo schiavo Ierocle, che con il suo supporto giunse a ricoprire alte cariche governative e nei confronti del quale l’imperatore si definiva “sua moglie”. Stando a quanto ci riferisce Cassio Dione, infatti, egli sarebbe stato addirittura disposto ad offrire metà dell’impero al medico che lo avesse reso donna senza farlo morire. Frequentava apertamente bordelli, dove pare si prostituisse: cosa assai inusuale per un sovrano.

Negli anni in cui fu al governo venne fondato, sul Quirinale, il “Senaculum mulierum”, cioè il “piccolo Senato delle donne”, dove tutte quelle a lui più vicine avevano potere decisionale e potevano formulare proposte da sottoporre al Senato.


Venne assassinato nel 222 d.C. dai pretoriani sostenitori del cugino Alessandro Severo, di tendenze più conservatrici. I corpi di madre e figlio furono decapitati e trascinati per le vie di Roma in segno di disprezzo, dopodiché quello dell’imperatore venne gettato nel Tevere.

Su Marco Aurelio Antonino Augusto si abbatté, tremenda e inevitabile, la damnatio memoriae di chi, troppo giovane, si era lasciato inebriare dal profumo delle rose tralasciando la cura dello Stato.


Bibliografia:

Dione Cassio, Storia romana, 230 d.C. circa;

Erodiano, Storia dell'impero dopo Marco Aurelio, 247 d.C. circa;

Sconosciuto, Historia Augusta, IV secolo.










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