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Angelica Campanella

AMOR SACRO E AMOR PROFANO

Le maschere dell’amore sono state soggetto dell’arte di poeti, pittori, scultori e musicisti per millenni. Una forza che ha mosso l’uomo da prima che questo le desse un nome, e che ha la capacità di mostrarsi diversamente ad ogni persona, cambiando maschera come un attore dell’antica Grecia. Giudicato, talvolta vietato nel corso della storia, l’amore ha continuato a mostrare il suo viso, impavido di fronte ad ogni censura. Tiziano, nella sua opera “Amor sacro e Amor profano” ci mostra soltanto due delle tante sfumature di questo sentimento, che è tanto spirituale quanto fisico, tanto casto quanto carnale.


Il quadro, realizzato nel 1515 e conservato nella Galleria Borghese a Roma, fu commissionato molto probabilmente da Niccolò Aurelio, segretario del Consiglio dei Dieci e futuro gran Cancelliere di Venezia, in occasione delle sue nozze con Laura Bagarotto. La scena presenta due donne e un bambino, tutti sul bordo di una fontana, decorata nella fascia frontale, che ricorda molto i sarcofagi romani e in cui spicca lo stemma dorato di Niccolò Aurelio. La donna sulla sinistra, una sposa, indossa una sontuosa veste bianca e dei guanti. Tra i capelli vi è un ramo di mirto, fiore sacro a Venere e tipicamente posto sul capo delle spose. Inoltre, sotto il braccio sinistro vi è un bacile, di solito usato dopo il parto, che simboleggia un augurio di fertilità per la coppia. La donna a destra, invece, sarebbe quasi completamente nuda se non fosse per il mantello rosso poggiato sulla spalla e per il piccolo pezzo di tessuto bianco che le copre il pube. Con il braccio destro si appoggia alla fontana, mentre con il sinistro sorregge dell’incenso che sta bruciando. Le due donne sembrano voler dunque rappresentare le due facce dell’amore, mentre il bambino, secondo alcune interpretazioni Cupido, mescola l’acqua della vasca che le unisce. Questa ipotesi si serve di un ulteriore particolare: le due donne, infatti, sono identiche in viso, quasi fossero la stessa persona in due situazioni completamente diverse. Sullo sfondo a sinistra si riconosce il paesaggio di una città sulla montagna, davanti a cui si staglia una collina buia con due conigli, simbolo di fertilità. A destra, un insediamento su cui svetta il campanile di una chiesa si trova vicino ad un piccolo fiume. In corrispondenza dei conigli, sulla destra si trovano due uomini a cavallo che, aiutati dai cani, danno la caccia ad una lepre. Alla loro destra c’è un pastore con il suo gregge di pecore, e sul limite della tela una coppia di innamorati. “Amor sacro e Amor profano” mostra la donna nei panni di moglie e di amante, nell’abito più comune e più intimo dello stesso sentimento. La figura della donna è da sempre stata ispiratrice di versi d’amore, per quanto diversi tra loro: Lesbia, Beatrice e Laura, muse rispettivamente di Catullo, Dante Alighieri e Francesco Petrarca, non sono soltanto lontane nel tempo, ma è anche diversa la maschera che mettono all’amore.


Lesbia è fonte di un amore disperato e passionale, l’apice della pura lussuria, da cui l’affetto è talvolta schiacciato. Odi et amo, scriveva Catullo, e si chiedeva come fosse possibile un simile sentimento, che lo sconvolge e scatena in lui mille reazioni: Nam simul te, Lesbia aspexi, mihi est super mi <vocis in ore>, lingua sed torpet, tenuis sub artus flamma demanat, sonitu suopte tintinant aures, gemina teguntur lumina nocte (carme 51).


Catullo perde la voce, sente le orecchie fischiare e la vista vacillare alla vista di quella donna che ama e desidera più di ogni cosa, capace di risvegliare in lui bisogni carnali e primitivi, e che odia in egual misura. Beatrice, al contrario, par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare (“Tanto gentile e tanto onesta pare”). La donna dello Stilnovo è una donna salvifica, dalle sembianze di un angelo, gentile e onesta, completamente opposta al sentimento terreno del poeta latino.



Non era l’andar suo cosa mortale, ma d’angelica forma; e le parole sonavan altro, che pur voce humana scrive Petrarca della sua Laura nel sonetto “Erano i capei d'oro a l'aura sparsi”. Una creatura molto più vicina al cielo che alla terra e alle sue creature, irraggiungibile e intoccabile, al contrario di Lesbia a cui Catullo chiedeva mille baci e poi altri cento (carme 5). Eppure, anche per la donna celestiale, nella sua lontananza dal mondo degli uomini, ogne lingua deven tremando muta, e li occhi no l’ardiscon di guardare (“Tanto gentile e tanto onesta pare”). Gli stessi effetti a millenni di distanza, scatenati da donne la cui immagine non potrebbe essere più diversa. “Amor sacro e Amor profano”, ma pur sempre amore, con le sue maschere tutte diverse e le sue conseguenze tutte uguali.






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